1 marzo 2011 sciopero dei lavoratori immigrati per Italia solidale.
Dal Salento la tragica storia di un operaio morto nel 1983. Ieri come oggi , nulla è cambiato
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Morto a causa di un incidente sul lavoro e mai risarcito. Una famiglia che non si e' smarrita, che ha sperato nella Giustizia , ma invano. Giorgio Pino , operaio di Casarano ,mori' a 45 anni, dopo sette giorni di agonia a causa di un incidente nella fabbrica di scarpe "5Elle". Era tornato in Italia dopo aver guadagnato un gruzzolo in Svizzera ,a Wil, dove era emigrato in cerca di fortuna. Un copione noto, quello di chi ripone nel sacrificio dell'espatrio la speranza di un lavoro, quindi di un avvenire. La nostalgia della sua terra l'aveva riportato, insieme alla moglie e ai due figli, a Casarano. E in Italia, nel Sud che chiedeva l'elemosina allo Stato, che non sapeva trattenere i suoi figli migliori, nel Mezzogiorno incapace di guardare al di sopra della coppola, cioè di alzare la testa, in quel Sud Giorgio si accorse di aver compiuto uno sbaglio. Pur di portare a casa lo stipendio accettava di lavorare in condizioni che la legge non prevedeva. Quale alternativa gli era offerta? Poteva solo chinare la schiena e lavorare. La necessita' di sostentamento prevaleva sul moto di rabbia e sul desiderio di giustizia. Lui e un collega erano addetti a riscaldare le tomaie attraverso una procedura molto pericolosa, senza precauzioni, vietata. Le inumidivano con una miscela di acqua e alcol, le ponevano a contatto con uno straccio infiammato. Giorgio prelevava l'alcol per la lavorazione delle scarpe da un contenitore di circa venti litri, lo versava in una bacinella da cui si sprigionava una fiamma. Nessuno fiatava , il pericolo era ormai una consuetudine. Ma il 14 luglio di qualche anno fa, alle 11,15 circa l'alcol si infiammo', l'incendio derivato dall'esplosione investi' Giorgio, in parte il suo collega di reparto e un'altra operaia. I due colleghi che furono parzialmente avvolti dalle fiamme se la cavarono in sessanta giorni l'uno e in venti l'altra, furono prontamente soccorsi dallo stesso Giorgio mentre tutti scappavano via, in preda al panico generale. Giorgio mori' presso il Centro Grandi Ustioni dell'Ospedale "Di Summa" di Brindisi, dove era stato ricoverato a causa delle gravi ustioni che avevano risparmiato solo il volto. La moglie riferi' ai giudici la versione dei fatti sussurratale dal marito. Svelo' che nello stabilimento era adoperata una "lumetta", contenitore metallico nel quale erano posti stracci imbevuti in una soluzione di alcol denaturato, attraverso la fiamma che si sprigionava gli operai riscaldavano e ammorbidivano le tomaie. I carabinieri nel sopralluogo operato il giorno dopo l'incidente confermarono la veridicita' del racconto. Ma nel processo, ricorda Claudio, il secondogenito di Giorgio, qualcuno che era stato coinvolto nell'incendio non collaboro' nella ricerca della verita'. Ma qualcun altro racconto' la procedura di stiratura delle tomaie usata nel calzaturificio .I giudici furono convinti. "Non vi e' dubbio -motivarono i magistrati nella sentenza– che il decesso di Pino Giorgio si ricolleghi alla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e comunque ad una generica imprudenza. Non puo' essere in alcun modo condiviso l'assunto del perito secondo cui l'infortunio si verifico' non durante il ciclo di lavorazione, l'operazione di travaso dell'alcol era viceversa necessaria proprio per le successive operazioni alla lumetta e non era certo il singolo dipendente che si procurava a sua spese l'alcol da utilizzare nella lavorazione". Quindi il tribunale riconobbe che il legale responsabile dell'azienda fosse a conoscenza del ciclo di lavorazione incriminato: "come riferito dai testi, era spesso presente nei reparti e forniva direttive sul lavoro". I giudici riconobbero la condotta colposa del datore di lavoro. Ma il reato fu prescritto. Il danno e la beffa. La signora Giuseppa, vedova di Giorgio, rimase con un figlio di 15 anni e l'altro di 11, e con un cumulo di perché. Aveva perduto il marito, non aveva ottenuto giustizia. La sua esistenza si era tinta di nero per colpa di una follia, di un pericolo prevedibile che non era stato evitato. Un pericolo che nessuno aveva denunciato, per paura di perdere il posto di lavoro, quella sicurezza per la quale si è disposti a lasciare gli affetti. E nessuno aveva mai controllato a quali rischi erano esposti gli operai della fabbrica "5 Elle" di Casarano. Il titolare dell'azienda l'ha passata liscia nonostante avesse "omesso di adottare le idonee precauzioni al fine di evitare – scrissero i giudici – che si verificassero riscaldamenti pericolosi e produzione di scintille nella lavorazione delle tomaie delle scarpe prodotte nello stabilimento". Quell'incidente causato dalla negligenza di un imprenditore, dall'assenza di controlli, dalla paura di denunciare, risale al 1983. Molto, troppo simile alle cronache del 2008.