Astici e crostacei vivi e al freddo del frigo e con le chele legate? È reato. Punito con un'ammenda di 5 mila euro il ristoratore che detiene gli animali nella cella frigorifera. Per la Cassazione, l’interesse a non provocare sofferenze ai crostacei preva
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Una sentenza che farà discutere e che creerà tantissime polemiche, soprattutto fra ristoratori, pescivendoli e tra quanti non hanno alcuna sensibilità verso il mondo animale, la 30177/17 della Cassazione penale, pubblicata ieri 16 giugno. I giudici della terza sezione penale, partendo dal presupposto che astici, aragoste e granchi soffrono se vengono detenuti vivi in una cella frigorifera a basse temperature e con le chele legate in attesa di essere cotti e mangiati, confermano che si è passibili del reato di abbandono di animali di cui all'articolo 727 comma 2 del codice penale, punibile con un’ammenda. Tale modalità di conservare i crostacei, dettata dalla necessità del contenimento dei costi - che per Giovanni D'Agata presidente dello “Sportello dei Diritti” è una prassi generalizzata ed odiosa ed è giusto che sia punita - è causa di una grave sofferenza in questi animali ed è, pertanto, perseguibile penalmente. Dev'essere, quindi, ritenuto prevalente l’interesse a non provocare sofferenza nell’animale rispetto a quello economico in ragione della tipica tutela prevista dalla norma incriminatrice, in analogia a quella prevista per gli animali d'affezione quali cani e gatti. Nella fattispecie, un ristoratore era stato ritenuto colpevole dal Tribunale di Firenze del reato citato e condannato al pagamento di un’ammenda di 5 mila euro, per aver detenuto alcuni crostacei vivi nella cella frigorifera e con le chele legate e, dunque, in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di sofferenza. L'imprenditore ricorreva, quindi, per Cassazione evidenziando fra l'altro che i crostacei, provenienti dall’estero, venivano consegnati già in quelle condizioni, non sanzionabili e proibite da alcuna norma nazionale; specificava, fra l'altro che non vi fosse prova che togliere l’animale dal ghiaccio per poi immergerlo in acqua calda non lo facesse soffrire o attenuasse le sue sofferenze. Per la difesa dell'imputato, inoltre, sarebbe fatto notorio che il crostaceo tenuto a basse temperature e, in ogni caso, destinato a essere cucinato, vive le sue ultime ore in uno «stato di torpore e anestesia che annulla la sensazione di dolore». La Suprema Corte con la decisione in commento ha ritenuto inammissibile il ricorso è ha ritenuto valide le argomentazioni del giudice di primo grado che aveva rilevato che i crostacei prima di finire in una cella frigorifera, vivevano in acque o acquari a temperature alte; la forte escursione termica cui sono sottoposti provoca gravi sofferenze. Ed è quindi necessario far risparmiare all’animale tale inutile dolore adottando accorgimenti economicamente più gravosi che tuttavia consentono di detenere i crostacei in modo «più consono alle loro caratteristiche naturali». E a nulla vale la deduzione secondo cui tenere i crostacei vivi sul ghiaccio e con le chele legate provoca sofferenza nell’animale, tanto quanto la modalità di cottura che in astratto potrebbe costituire un maltrattamento. Per i giudici di legittimità vi è una chiara differenza nel «riconoscimento dell’uso comune». Le sofferenze causate dalla detenzione degli animali in attesa di essere cucinati «non possono essere parimenti giustificate, in quanto, solo nel primo caso l’interesse (umano) alla non-sofferenza dell’animale soccombe nel bilanciamento con altri interessi umani della più varia natura e legittimati dalla presenza di leggi. Al contrario, non può essere considerata una consuetudine socialmente apprezzata quella di detenere gli animali a temperature così rigide, tali da provocare sicure sofferenze». Precisano i giudici di Piazza Cavour che «al pari della tutela apprestata nei confronti degli animali di affezione, integra il reato ritenuto in sentenza la detenzione dei crostacei secondo modalità per loro produttive di gravi sofferenze e, per altro, adottate per ragioni di contenimento di spesa, con la conseguenza che, nel bilanciamento tra interesse economico e interesse (umano) alla non sofferenza dell’animale, è quest’ultimo che, in tal caso, deve ritenersi prevalente e quindi penalmente tutelato, in assenza di norme o di usi riconosciuti in senso diverso». Infine, viene riconosciuto il diritto alla Lav (lega antivivisezione onlus) quale parte civile costituita, il risarcimento del danno liquidato in via equitativa e le spese processuali.