Carceri ed emergenza suicidi: Il Ministero di Giustizia va condannato al risarcimento dei danni in favore degli eredi dopo che il detenuto si è tolto la vita se ha manifestato intenzioni suicide, non viene visitato dallo psicologo e non viene sottoposto a
Accolto dalla Cassazione il ricorso dei familiari di un recluso uccisosi in cella
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Giustizia (forse) fatta per i parenti di un giovane suicidatosi in cella. Anche se nessuno potrà restituire il caro toltosi prematuramente la vita, ma la ricerca della verità davanti alla magistratura, con il conseguente ristoro economico delle sofferenze patite in conseguenza del tragico evento, a volte può incontrare un fine meno tragico. È questo che è accaduto con l’ordinanza 30985/18, pubblicata oggi dalla Cassazione civile, che nel ribaltare il verdetto della Corte d’Appello di Catanzaro, ha accolto il ricorso dei genitori di un detenuto che si era suicidato in carcere ritenendo che il ministero della Giustizia debba risarcire i familiari se prima del tragico evento lo stesso avesse manifestato propositi suicidi e non fu sottoposto ad alcuna visita dello psicologo ne sottoposto a vigilanza speciale o posto in regime comune. Nella fattispecie, i giudici della terza sezione civile della Suprema Corte hanno preso in esame la vicenda scaturita dal ricorso dei genitori e dei fratelli di un detenuto che all’atto di esecuzione del provvedimento restrittivo della libertà personale dichiarava di volersi suicidare e, nonostante la manifestazione di queste intenzioni, non fu sottoposto ad alcuna vigilanza speciale né posto in regime comune. In primo grado i prossimi congiunti si erano visti riconoscere dal Tribunale di Catanzaro un rilevante risarcimento, mentre in secondo grado, la Corte di appello, accogliendo l’appello del Ministero, aveva ritenuto l’evento né prevedibile né prevenibile. Per gli ermellini che hanno accolto tutte le doglianze contenute nel ricorso, al contrario, non si può «ragionevolmente» affermare che l’amministrazione penitenziaria abbia adottato «tutte le misure idonee ad evitare l’evento, né che non sussistessero obblighi derivanti da specifiche norme giuridiche». L’articolo 23 del dpr 230/00 dispone espressamente «un esperto dell’osservazione e trattamento effettua un colloquio con il detenuto o internato all’atto del suo ingresso in istituto, per verificare se ed eventualmente con quali cautele possa affrontare adeguatamente lo stato di restrizione». Il risultato di tali accertamenti è comunicato agli operatori incaricati per gli interventi opportuni e al gruppo degli operatori dell’osservazione e trattamento di cui all’articolo 29. Nel caso in questione, il detenuto non fu sottoposto ad «alcuna osservazione funzionale a verificarne la capacità di affrontare adeguatamente lo stato di restrizione e ciò in quanto al momento dell’ingresso in carcere non c’erano né l’educatore né lo psicologo e questa pur decisiva circostanza non risulta oggetto di alcuna valutazione da parte della Corte territoriale». Per Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, si tratta di una decisione importantissima che non solo costituisce un significativo precedente per quanti, tra decine e decine di familiari di detenuti suicidatisi in cella, cercano Giustizia, ma anche un monito all’Amministrazione Penitenziaria e soprattutto nei confronti di “via Arenula” affinché si combatta efficacemente l’emergenza “carceri” attraverso misure che riportino al centro del dibattito la dignità e la salute psicofisica dei ristretti e la funzione di rieducazione della pena che è, purtroppo, inattuabile con l’attuale ordinamento.