Diritti: «Così lottammo per lo Statuto dei lavoratori». Una conquista maturata dal basso al prezzo di dure lotte e scioperi.
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Lo Statuto fu approvato alla Camera il 14 maggio del 1970,promulgato il 20 maggio, figlio della Carta Costituzionale del 1948. Il primo a parlarne nel novembre del 1952 fu Giuseppe Di Vittorio, comunista, leader dei braccianti di Cerignola, divenuto poi segretario generale dei generale della Cgil. nella relazione tenuta al congresso che si svolse a Napoli pose l’esigenza di uno “Statuto dei diritti dei cittadini lavoratori”. Di Vittorio lanciò la proposta per lo Statuto già nel 1952: "Esiste la Costituzione della Repubblica, la quale garantisce a tutti i cittadini, lavoratori compresi, una serie di diritti che nessun padrone ha il potere di sopprimere o di sospendere, non c’è e non ci può essere nessuna legge la quale stabilisca che i diritti democratici garantiti dalla Costituzione siano validi per i lavoratori soltanto fuori dall’azienda." Lo Statuto cui pensa il leader della Cgil è figlio della Costituzione: il lavoro, il suo valore sociale, il suo messaggio di liberazione , emancipazione e solidarietà, ne sono il comune fondamento. Ma la Costituzione si ferma ai cancelli delle fabbriche , ne bloccano l’attuazione la “guerra fredda”, le elezioni del 1948, la sconfitta della sinistra, la repressione scelbiana del conflitto sociale, l’attentato a Togliatti. Anche il rilancio da parte di Di Vittorio non ha successo. Si oppongono le forze conservatrici, nei luoghi di lavoro i padroni, diciamo proprio i padroni, hanno completa libertà. La Fiat è capofila: gli iscritti alla Fiom vengono isolati nei “reparti confino”. Ci vuole l’autunno caldo, i grandi movimenti degli operai e degli studenti, la nascita del governo di centrosinistra con democristiani e socialisti e prima le grandi manifestazioni popolari contro il governo Tambroni. Cambia il clima, la dc ha bisogno di riqualificarsi, di ritrovare le sue origini, apre a sinistra. Nel 1962 i socialisti entrano nell’area di governo. L’anno dopo il presidente del Consiglio Aldo Moro presenta il nuovo esecutivo in Parlamento e pone l’esigenza di uno Statuto dei diritti dei lavoratori. Sono i socialisti in particolare che aprono la strada alla legge. Giacomo Brodolini, ex segretario nazionale della Cgil, socialista, ministro del Lavoro dal1968, dà un grande contributo, viene e nominato Giugno Giugni, socialista, un insigne giurista, presidente della Commissione incaricata di redigere la bozza della legge. Sarà il “sessantotto”a dare la spinta necessaria, ad accelerare il cammino che porterà alla approvazione. A mettere il timbro non sarò Brodolini morto nel1969 ma il nuovo ministro, il democristiano Donat Cattin. Dice Giugni lo Statuto rappresenta una “ felice congiunzione fra cultura politica e movimento di massa”. Cosa del tutti estranea alla “ cultura renziana”. Per non parlare del New deal e la Repubblica di Weimar, il rapporto fra potere politico e forze intermedie, cosa che agli orecchi di Renzi suonano proprio male. A favore votarono i socialisti, il Pci si astenne pur apprezzando la legge. E qui si arriva al voto. Ovviamente votarono a favore i socialisti. Ma nel Pci si aprì una discussione e anche nella componente comunista della Cgil vi fu dibattito. Cgil, Cisl, Uil avevano deciso la incompatibilità fra cariche politiche e cariche sindacali. Novella, segretario generale della Cgil, si era dimesso ed era subentrato Luciano Lama ( 24 marzo 1970). Due “osservazioni” venivano dal Pci: la prima riguardava l’assenza nella legge di riferimenti alla presenza nelle fabbriche anche delle strutture di partito. La seconda era riferita al fatto che la legge riguardava solo le aziende sopra i 15 dipendenti. Un compromesso fra socialisti e democristiani i quali si fecero paladini delle piccole imprese dove, dicevano, c’era un rapporto fiduciario fra imprenditore e lavoratori. Il Pci decise per l’astensione, pur esprimendo apprezzamento per la nascita di una legge che, fu detto, riportava la Costituzione nelle fabbriche.Lama: lo Statuto frutto delle politica unitarie e delle lotte sindacali. Il commento di Luciano Lama : “Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori e dalla sua azione organizzata”. E questa diventò la posizione di tutto il Pci. La astensione , di fatto, era nei confronti del governo di centrosinistra non dei contenuti della legge. Nel corso degli anni tante sono state le proposte, le iniziative, della stessa Cgil, del Pci, per completare l’opera, dando garanzie anche a chi non ce le ha, le nuove figure “ atipiche”. Furono perfino raccolte dalla Cgil, dopo la grande manifestazione del Circo Massimo, segretario Sergio Cofferati, firma, alcuni milioni su una proposta di legge popolare, ma si persero in qualche cassetto. Trentin: nessuna riforma potrà cancellare lo Statuto. Bruno Trentin ogni volta che veniva messo in discussione lo Statuto, l’Articolo 18 che ne è perno, ricordava che la Cgil ha sempre assunto una posizione chiara: nessuna riforma globale potrà cancellare lo Statuto perché nessun cambiamento delle regole fondamentali in esso contenute è possibile. A Renzi ci permettiamo di rivolgere un “ammonimento” di Di Vittorio:” E’ vero che le fabbriche sono di proprietà privata […] non per questo i lavoratori divengono anch’essi proprietà privata del padrone all’interno dell’azienda. Il lavoratore, anche sul luogo del lavoro, non diventa una cosa, una macchina acquistata o affittata dal padrone, e di cui questo possa disporre a proprio compiacimento. Anche sul luogo del lavoro, l’operaio conserva intatta la sua dignità umana, con tutti i diritti acquisiti dai cittadini della Repubblica italiana”. Sono valori senza tempo anche se Renzi non lo sa.