I ROM FUORI DAL GHETTO. “Vi racconto il mio popolo amico”
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Il caffè del martedì pomeriggio Rosalba lo prende in roulotte. E’ un caffè alla turca – macinato aggiunto ad acqua bollente – dal sapore terroso e maltato. I rom montenegrini del campo-sosta Panareo di Lecce lo preparano così, secondo una ricetta balcanica che Rosalba conosce da sempre: l’ha imparata dalla nonna Irina, rom greca che nel 1917 si camuffò da soldato per seguire nel Salento l’uomo di cui si era innamorata tra i fuochi della guerra. “Forse è stato un richiamo di sangue ad avvicinarmi alla cultura rom – spiega Rosalba D’Agata Bove, leccese, responsabile dell’Ufficio Immigrazione Salento della Provincia. “Quando nel ’91 si sono riversati sulle nostre coste i primi immigrati zingari, ho colto al volo l’occasione di conoscerli: anno dopo anno, ho stretto con tutti loro una profonda amicizia”. Il martedì è il giorno in cui la comunità salentina dei rom montenegrini scompare dai semafori e si ferma per ritrovarsi. Lavorare, per la maggior parte di loro, vuol dire chiedere l’elemosina per le strade del capoluogo. Un’attività che non considerano meno decorosa di altre, come la compravendita di automobili sull’asse Salento-Montenegro che ha preso piede tra loro negli ultimi tempi. “C’è poi un lavoro sommerso che sconfina nell’illegalità – rivela Rosalba – ma i rom quasi mai vengono arrestati per furto. Che siano ladri formidabili è un pregiudizio privo di fondamento, almeno dalle nostre parti: piuttosto finiscono in galera per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. A dirla tutta, qualche anno fa furono loro ad aiutarmi a ritrovare la mia auto rubata”. Gli immigrati montenegrini più giovani seguono i corsi di formazione professionale organizzati dalla Provincia, ma trovare un impiego per loro non è facile, e chi ce la fa viene licenziato non appena saltano fuori le sue origini. Così, per disperazione, alcuni preferiscono finire in carcere, dove paradossalmente si può lavorare e racimolare il denaro necessario a mandare avanti la famiglia; qualcun altro cerca di mimetizzarsi tra i salentini vestendo all’occidentale; altri invece si rassegnano, limitandosi a precisare che essere rom non equivale ad essere zingari: i montenegrini in terra natia sono stanziali, e aspirano a diventarlo anche nel Salento.Le stesse roulotte non rispondono ad una vocazione nomade, ma ad esigenze di carattere pratico, nell’attesa di una vera casa. “Tuttavia al momento – afferma Rosalba – restano gioco forza il centro della vita rom. Ci si arrangia in 6-7 in spazi ridottissimi,eppure non manca mai un posto in più per chi chiede ospitalità. La prima volta che ho dormito in roulotte mi è sembrato di liberarmi di un tabù. Ho passato la notte su uno dei divani-letto del camper della mia amica Izeta e della sua famiglia, che mi hanno riempita di affetto ed attenzioni. I rom conoscono l’accoglienza, hanno un forte senso della famiglia allargata”. La comunità montenegrina del Salento è di fede islamica ma è devota ad alcuni santi cristiani, coerentemente con un sincretismo religioso che le permette aperture verso i culti dei popoli fra i quali vive. A Lecce, i rom frequentano la chiesa di S. Antonio a Fulgenzio, ma il santo prediletto è S. Giorgio, che nei Balcani unisce cattolici, ortodossi e musulmani. Si inizia a festeggiare il 6 maggio e si va avanti fino a quando non se ne può più dalla stanchezza. “Si imbandiscono enormi tavolate – racconta Rosalba – stracolme di pietanze tradizionali: stufati di carne, patate con le verdure, peperoni ripieni. Gli uomini bevono e alla sera si aprono le danze, al ritmo di musiche eseguite da suonatori chiamati dalla Bosnia o dal Montenegro. In queste occasioni emerge la straordinaria coesione interna della comunità rom, testimoniata da una lunga processione di regali reciproci: i dissidi si mettono da parte e tutti partecipano, anche gli amici e i parenti lontani, e i non zingari come me, che a differenza degli altri hanno la licenza di interrompere la baldoria e tornare il giorno dopo. Questo vale per tutte le cerimonie”.Rosalba è stata la madrina di battesimo, con rito musulmano, di un bambino nato da una madre tubercolotica che prima di lui aveva messo al mondo solo figlie femmine. Un dramma per la famiglia rom, fondata su una struttura patriarcale. Il capofamiglia decide su tutto, anche sui matrimoni delle figlie, che vende in cambio di un’adeguata ricompensa, non sempre in denaro: la giovane età, preferibilmente intorno ai 13-14 anni, e la carnagione chiara sono ottime pedine di scambio. “Le donne – svela Rosalba – accettano tutto questo di buon grado, consapevoli di diventare col matrimonio proprietà del marito, al quale restano fedeli anche se le picchia senza motivo. Di fatto in molti casi sono loro a gestire la vita domestica, ma le apparenze devono essere sempre salvaguardate. Guai per una rom indossare il dente d’oro se il marito è in prigione, guai ad eseguire su un bambino il rituale taglio del codino durante il battesimo se il padre è assente”. Le sole donne ad avere margini di libertà sono le anziane, le vedove e le orfane: Mira, che ha perso il padre da bambina, ha potuto scegliere di non sposarsi. “Oggi – spiega Rosalba – l’impatto con le popolazioni non rom sta modificando il modo di vivere dei rom, dalle abitudini quotidiane alla progressiva scomparsa dei tradizionali tatuaggi simbolici e di antiche pratiche magiche come la lettura della mano, fino ai matrimoni misti con persone del posto, ancora rari ma segno evidente di cambiamento”. La vera svolta può arrivare con l’alfabetizzazione delle nuove generazioni, che sta già ridisegnando il volto di una civiltà fondata sulla cultura orale. I bambini rom parlano tre lingue e hanno imparato a leggere e a scrivere. “Ma il loro apprendimento – precisa Rosalba – non è adeguatamente sostenuto dalle famiglie, che li mandano a scuola solo per non incorrere in noie legali. Inoltre, oggettivi impedimenti, come gli incendi e le piogge che si abbattono sul campo, a volte ostacolano il loro trasporto nelle sedi scolastiche”. Ad emarginare la comunità montenegrina dal resto del mondo sono dunque anche le barriere logistiche. Un muro di fronte al quale Rosalba non si è mai arresa, attraverso il suo impegno nella ricerca di fondi, per esempio, o nell’ideazione di campi-estivi per i più piccoli. “Con il mio lavoro cerco di offrire ai rom gli strumenti per vivere una vita più dignitosa. Pensate forse che non si rendano conto di essere sul gradino più basso della scala sociale? Lo sanno eccome, e a volte ne soffrono. Ciò nonostante, riescono ad essere un popolo straordinariamente vitale, allegro, generoso. Questo mi ha sempre colpito dei rom. Se un giorno volessi voltar pagina non avrei dubbi: la mia vita ricomincerebbe nel campo, insieme a loro”.