Il diritto tributario e la tutela dei diritti fondamentali dell’uomo: la Cedu viene in aiuto del contribuente.
Dettagli della notizia
Nell’attuale quadro istituzionale i diritti fondamentali del cittadino giocano un ruolo fondamentale nel determinare il livello di civiltà di un sistema giuridico e la democraticità di un paese.
Le democrazie europee tutelano i diritti fondamentali su più livelli: oltre a una tutela da parte della normativa nazionale, vi è una tutela derivante da norme ed istituzioni dell’Unione europea (la “Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea”) e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
Fino a pochi anni fa il sintagma “giustizia tributaria (o finanziaria) e diritti fondamentali” sarebbe stato ritenuto come improbabile; oggi, la situazione è notevolmente mutata a causa di diversi fattori, tra i quali la crisi dell’economia globale e l’arretramento dello Stato nei settori propri dello “Stato sociale”, che non hanno più garantito ai cittadini la fruizione di servizi efficienti .
Il diritto finanziario, inteso come diritto che regola il reperimento dei mezzi con cui finanziare la spesa pubblica e le consequenziali scelte sull’erogazione della spesa, ha una rilevante incidenza sui diritti fondamentali.
In tempo di crisi, infatti, la finanza pubblica e il tributo minacciano i diritti fondamentali; un prelievo tributario o contributivo che si discosti dal parametro dell’equità e della proporzionalità nell’esercizio del potere impositivo, rischia di privare la collettività dei mezzi necessari per garantire i servizi che tutelano i diritti fondamentali dei consociati.
La dottrina si è sempre dibattuta nella ricerca della “giusta misura” tra giusto tributo, giusto procedimento e giusto processo .
Quanto accertato dall’Amministrazione finanziaria e riscosso dall’Agente di riscossione, deve essere la risultante di un “giusto procedimento” che miri a un giusto tributo e non al massimo prelievo possibile.
L’equilibrio tra le tre predette grandezze può essere realizzato attraverso una serie di articoli della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
Detta Convenzione può fornire al contribuente alcuni strumenti appropriati per tutelarsi dalle violazioni di diritti fondamentali, a causa delle distorsioni determinate da leggi lacunose e dalla cattiva prassi.
La giurisprudenza della CEDU sta influenzando sempre di più l’orientamento della dottrina e della giurisprudenza nella tutela dei diritti fondamentali dei contribuenti; poiché i principi, come il nemo tenetur se detergere, il ne bis in idem e il nulla poena sine lege, oggi sono frequentemente violati a danno del contribuente italiano, attraverso il diritto CEDU si può trovare un’adeguata tutela e rientrare nell’alveo del diritto tributario .
L’auspicio della recente dottrina e degli operatori del diritto è che l’apporto della giurisprudenza della CEDU possa realizzare un maggiore equilibrio nel rapporto tra fisco e cittadino, quando questi è considerato come “contribuente” .
2. La Cedu
La Cedu è una Convenzione internazionale, sottoscritta a Roma il 4 novembre del 1950 ed elaborata dal Consiglio d’Europa, organismo internazionale a cui aderiscono 47 Paesi aderenti e fondato per la salvaguardia dei diritti dell’uomo.
Al Titolo I della Convenzione sono enunciati i diritti e le libertà fondamentali che gli Stati contraenti devono rispettare e, poiché tali principi hanno carattere astratto, sono stati colmati in concreto dalla giurisprudenza della Corte EDU.
L’Italia ha siglato predetta Convenzione e l’ha recepita con la Legge n. 848/1955.
Le due sentenze gemelle della Corte Costituzionale, nn. 348 e 349 del 2007, hanno affermato che le norme CEDU hanno natura sub-costituzionale, ossia di norme costituzionalmente interposte, sovraordinate alle leggi ordinarie e sottoposte al rispetto della Costituzione, in quanto gerarchicamente sovraordinata.
La Cedu è parte dell’ordinamento nazionale e, pertanto, le sue norme devono essere rispettate dai tre poteri dello Stato. In particolare, il giudice nazionale deve verificare se le contestazioni sollevate dal cittadino sono fondate ed effettuare un’interpretazione convenzionalmente orientata delle norme interne di cui è eccepito il contrasto con la CEDU.
Qualora il giudice interno non possa rendere un’interpretazione conforme alla Convenzione, deve rimettere alla Corte Costituzionale la questione di legittimità, per violazione dell’art.117 Cost, in riferimento alla norma CEDU che si ritiene violata.
Il ricorso diretto alla Corte EDU rappresenta l’ultimo rimedio giurisdizionale per la tutela dei diritti umani; infatti, se tutti i rimedi giurisdizionali interni si sono rivelati inutili, la CEDU prevede un rimedio ulteriore, contemplando il ricorso alla Corte EDU.
Il diritto CEDU ha una funzione sussidiaria e, a tal proposito, possono configurarsi due presupposti: a) il ricorso deve essere presentato entro il termine perentorio di sei mesi dalla data in cui la decisione interna è diventata definitiva; b) può essere presentato il ricorso diretto immediato o per saltum di uno o più gradi delle vie giurisdizionali interne, quando l’ordinamento interno non è in grado di offrire un rimedio giurisdizionale efficace.
E’ opportuno individuare gli articoli della Convenzione rilevanti in ambito tributario:
- art. 6 : diritto all’equo processo, estromesso dalle cause tributarie con la sentenza Ferrazini ma che il revirement della Corte ne ha previsto attualmente l’applicazione anche in tali giudizi;
- art. 7: principio di legalità in materia penale, che trova applicazione anche nel contesto tributario, attraverso il riconoscimento del carattere sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative-tributarie e mediante i criteri Engel coniati dalla giurisprudenza della Corte EDU;
- art. 8: il diritto al rispetto della vita privata, che viene in aiuto sulla legittimità degli accessi dell’Amministrazione Finanziaria presso la sede del contribuente e sulla la tutela della riservatezza dei documenti e della corrispondenza in generale;
- artt. 13 e 14: rispettivamente il “diritto a un ricorso effettivo”, qualora sia negato al contribuente il ricorso immediato a un giudice, e il ”divieto di discriminazione” ;
- art.1 del primo Protocollo addizionale: protezione della proprietà;
- art. 4, Protocollo n.2: Ne bis in idem, ossia il diritto di non essere giudicato o punito due volte, che è stato al centro del dibattito giurisprudenziale recente della Corte EDU e della giurisprudenza di legittimità.
Il processo dinanzi alla Corte EDU si può concludere ex art. 41 della CEDU con la condanna per lo Stato di riparare al cittadino la lesione subita, ripristinando lo status quo ante; predetto articolo stabilisce il risarcimento del danno nell’ipotesi in cui non sia possibile la restituito in integrum .
3.La Carta europea
Un ulteriore strumento di tutela dei diritti fondamentali del contribuente può essere fornito dalla c.d. Carta Europea, ossia la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, nota anche come Carta di Nizza, che con l’entrata in vigore del trattato di Lisbona è diventata parte integrante dei trattati europei .
La Carta enuncia tre categorie di diritti, i «corrispondenti» a quelli della CEDU, i diritti «esistenti» e i diritti «emergenti», ripartendoli in sei titoli correlati ad altrettanti valori individuali ed universali: dignità, libertà,uguaglianza, solidarietà, cittadinanza e giustizia.
L’interpretazione e l’applicazione dei diritti “corrispondenti” a quelli CEDU sono individuati non solo dal testo della summenzionata Convenzione, ma anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo e dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea.
La Carta, come enunciato dall’art. 51 della stessa, si applica agli organi e alle istituzioni dell’Unione e per quanto attiene agli «Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione. Pertanto, i suddetti soggetti rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze». La Carta «non introduce competenze nuove o compiti nuovi per la Comunità e per l’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati» .
Pertanto, occorre osservare che la Carta Europea ha la stessa primazia del diritto dell’UE e, di conseguenza, il giudice nazionale, qualora rilevi un contrasto tra una nuova norma nazionale e un principio della Carta, è tenuto a disapplicare la norma interna.
La Carta europea deve offrire una tutela almeno pari a quella della Convenzione e, quindi, non può esserci un contrasto tra le garanzie delle stesse.
L’ambito di applicazione della Carta è più ristretto, vigendo il limite imperativo delle competenze che i Trattati assegnano all’Unione Europea; orbene, in ambito tributario, le tutele della Carta sono applicabili solo nell’ambito dei tributi armonizzati, ossia IVA, dazi e accise.
Nel caso di lesioni di diritti fondamentali contemplati dalla Carta Europea, il giudice nazionale può interpellare ex art. 267 TFUE la Corte di Giustizia, affinchè valuti l'effettiva incompatibilità della norma interna rispetto al principio della Carta Europea.
A differenza della CEDU, che esamina direttamente il rispetto dei diritti posto in essere dall'autorità dello Stato contraente, la CGE si limita a una funzione d'interprete del Diritto dell'UE, fornendo al giudice nazionale tutti gli elementi necessari per una corretta interpretazione del diritto da applicare al caso oggetto di rinvio.
Diverso effetto hanno le sentenze della Corte EDU, che è destinataria di ricorsi diretti da parte del cittadino, aventi ad oggetto non questioni pregiudiziali, ma la violazione e la conseguente riparazione delle lesioni subite .
4. Compatibilità della giustizia tributaria italiana con l'equo processo definito all'art. 6 CEDU.
4.1. L’art. 6 CEDU può applicarsi ai giudizi tributari?
Dall’esame della CEDU si evince che le disposizioni che contemplano i rapporti fiscali tra lo Stato e i cittadini contribuenti sono contenute nell’art.1 del Primo Protocollo Addizionale che protegge la proprietà privata.
In particolare, l’articolo 1 di predetto Protocollo, al secondo paragrafo, enuncia che il riconoscimento della tutela della proprietà privata non pregiudica il «diritto degli Stati di porre in vigore le leggi da essi ritenute necessarie per disciplinare l’uso dei beni in modo conforme all’interesse generale o per assicurare il pagamento delle imposte o di altri contributi o delle ammende».
Con tale norma, come detto, per la prima volta la tassazione è espressamente menzionata nell’ordinamento convenzionale.
Secondo parte della dottrina, inizialmente i redattori del primo Protocollo si erano preoccupati di rendere compatibile il diritto di proprietà con le limitazioni ad essa imposte per garantire all’Erario la riscossione dei tributi; successivamente, tuttavia, viene affermata l’interpretazione secondo la quale tutte le misure fiscali, comprese le norme che impongono una tassazione, devono essere valutate alla luce del diritto di proprietà ed in più devono rispettare le limitazioni imposte nella seconda parte dell’art.1 di suddetto Protocollo .
In base al dato letterale dell’art.1 del Protocollo addizionale, l’imposizione fiscale costituisce un’ingerenza nel diritto garantito dall’art. 1 del Protocollo 1, perché priva la persona di un elemento di proprietà, ossia l'importo da pagare.
La stessa Corte EDU nella sentenza del 16 giugno 2010, Di Belmonte c. Italia, sottolinea che la materia fiscale non sfugge peraltro al controllo della Corte e fornisce tre parametri per verificare la corretta applicazione di predetto articolo: tali ingerenze devono avere una base legale, perseguire uno scopo legittimo ed essere proporzionate agli scopi perseguiti .
Un’altra disposizione della CEDU è stata invocata ancora più spesso in relazione alle questioni di natura fiscale ed è stata oggetto di una serie di pronunce giurisprudenziali da parte della Corte EDU.
Si tratta dell’art. 6, primo paragrafo, il quale, nell’introdurre il principio dell’equo processo, attribuisce a ogni persona «il diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta».
La Corte EDU ha ribadito che il richiamo esplicito dell’art. 6 ai “ diritti e doveri di carattere civile” e “all’accusa penale” esclude l’applicabilità di tali norme alle liti tributarie, vertendo esse su obbligazioni che, seppur di contenuto patrimoniale, riguardano doveri civici imposti in una società democratica (Schouten e Meldroun c. Paesi Bassi del 9 dicembre 1994).
Tale orientamento è stato ribadito in due successive pronunce della Corte EDU, entrambe relative al sistema tributario italiano.
Nella sentenza Ferrazzini contro Italia, i giudici di Strasburgo hanno evidenziato che la materia fiscale rientra ancora nell’ambito delle prerogative del potere di imperio, poiché rimane predominante « la natura pubblica del rapporto tra il contribuente e la collettività» e le «evoluzioni verificatesi nelle società democratiche non riguardano la natura essenziale dell’obbligazione per gli individui di pagare le tasse». Le stesse argomentazioni sono utilizzate dalla Corte nella sentenza 31 marzo 2009, Faccio c. Italia, per dichiarare irricevibile il ricorso di un contribuente contro l’apposizione coattiva dei sigilli all’apparecchio televisivo per mancato pagamento del canone, fondato sulla violazione degli artt. 8 e 10 della CEDU .
In tempi recenti, la Corte EDU ha dimostrato una cauta e prudente apertura rispetto al suo orientamento granitico espresso nella sentenza Ferrazini, riconoscendo degli elementi del giusto processo anche in controversie di natura squisitamente fiscale.
Ciò è stato possibile attraverso due interpretazioni differenti rese dalla Corte EDU.
In primo luogo, v’è da menzionare l’orientamento che la Corte EDU ha manifestato in una pronuncia sull’ammissibilita di due ricorsi proposti da società francesi.
Nella decisione SA Cabinet Diot et Gras Savoye c. France, la Corte è stata chiamata a pronunciarsi in merito all’applicabilità dell’art. 6, primo paragrafo, ad un giudizio, svoltosi di fronte al giudice tributario, avente ad oggetto la richiesta di rimborso di imposte che le società ricorrenti assumevano essere state indebitamente versate.
La Corte EDU, dopo aver ricordato che «il contenzioso fiscale fuoriesce dall’ambito dei diritti e degli obblighi di carattere civile» e dopo aver rilevato l’assenza di qualsiasi “elemento penale” nei procedimenti in questione, ha tuttavia riconosciuto che «un ricorso in restituzione può costituire un’azione di diritto privato, nonostante il fatto che esso trovi la sua origine nella legislazione fiscale e che i ricorrenti siano stati assoggettati al prelievo per il tramite di quest’ultima» .
La Corte ritiene, nel caso de quo, debba farsi valere nei confronti dell’Amministrazione finanziaria un diritto di credito, collegato alle imposte non dovute e, pertanto, il relativo giudizio, pur svolgendosi davanti al giudice tributario e pur fondandosi su norme fiscali, può essere fatto rientrare nell’alveo delle controversie di natura civile alle quali può applicarsi l’art. 6 CEDU.
Tale apertura manifestata dalla Corte EDU sembra avere l’effetto di ricondurre l’applicazione del giusto processo ad un’ampia parte del contenzioso dinanzi al giudice tributario. Ciò nonostante, la Corte ha negato che la garanzia dell’art. 6 CEDU potesse applicarsi al caso de quo, poiché le argomentazioni articolate dai ricorrenti nei propri scritti difensivi attenevano alla legittimità della normativa interna sulla quale si era fondato il prelievo e, quindi, avevano assunto un rilievo tipicamente pubblicistico che, come affermato nella sentenza Ferrazini, è estraneo all’ambito d’applicazione della norma in esame.
La Corte EDU già in precedenza aveva applicato lo stesso principio: nella sentenza Editions Périscope v. France del 1992, ha ritenuto applicabile l’art. 6, par. 1, ad un giudizio nel quale la società contribuente aveva lamentato la mancata concessione di un’agevolazione fiscale che l’aveva condotta all’insolvenza. Nel caso de quo, la scelta della Corte di far rientrare tale controversia nell’ambito dei “giudizi civili” trovava giustificazione nella prevalenza del carattere patrimoniale legato al dissesto finanziario del contribuente rispetto al profilo tributario.
Allo stesso modo, in altre pronunce , la Corte EDU ha affermato la natura civile di un’azione tendente a ottenere il rimborso di tributi versati in eccesso, ma lo ha fatto non assurgendolo a concetto generale ma, piuttosto, sulla base della particolare qualificazione che le azioni di questo tipo assumono nell’ordinamento britannico.
Le peculiarità che caratterizzano i due precedenti appena enunciati, quindi, rivelano la novità sull’applicazione in termini generali dell’art. 6 CEDU contenuta nella decisione sull’ammissibilità SA Cabinet Diot et Gras Savoye c. France .
E’ di tutta evidenza che l’approccio della Corte europea sull’applicazione dell’art. 6 è incerto: da un lato, nelle questioni di “carattere civile” si è divisa, affermando, da una parte, un principio innovativo che ha esteso le garanzie del giusto processo a una parte dei giudizi tributari aventi ad oggetto il rimborso di imposte indebitamente pagate e, dall’altra, una limitazione della portata di tale principio, con l’esclusione di tutti quei casi in cui l’istanza di restituzione si appoggia su considerazioni legate alla legittimità stessa del prelievo o delle modalità con le quali esso si è realizzato.
L’orientamento consolidato della sentenza Ferrazzini ha subito un’importante deroga con la sentenza del 23 novembre 2006, Jussila c. Filandia, con cui la Corte di Strasburgo ha affermato che una sanzione, pur non essendo qualificata come penale, avendo carattere afflittivo e deterrente, deve rispettare il principio del “giusto processo” statuito nell’art.6 CEDU e, in particolare, nel caso di specie, l’obbligo della pubblica udienza.
Analogamente, con sentenza 21 febbraio 2008, Ravon c. Francia, la stessa Corte ha espresso il contrasto tra l’art. 6 e una disposizione interna che abilita l’amministrazione fiscale ad eseguire atti di ispezione domiciliare, in assenza di un controllo giurisdizionale effettivo.
Secondo la dottrina, queste decisioni, anche se non rappresentano un revirement della giurisprudenza convenzionale, offrono all’interprete la possibilità di mettere sullo stesso piano il processo tributario e quello penale e di applicare l’art. 6 CEDU, ogni qualvolta si contesti l’irrogazione di una sanzione che, per natura e afflittività, appartiene in generale al campo penale, qualunque sia la qualificazione della stessa ad opera del diritto interno .
Pertanto, l’art. 6 della CEDU rappresenta un parametro di legalità che il legislatore ed giudice tributario devono rispettare, tutte le volte in cui la sanzione comminata dall’Amministrazione tributaria sia connotata dal carattere di afflittività .
4.2.ART.6 CEDU e i dubbi sull’l’indipendenza e imparzialità del giudice tributario.
L’altro profilo inerente all’equo processo riguarda gli aspetti d’indipendenza e imparzialità che sono propri del giudice tributario, nonché la sua precostituzione per legge.
La compatibilità di tali caratteristiche con il sistema tributario deve essere valutata verificando: a) le modalità di selezione; b) la durata del mandato; c) l’assistenza di protezione contro le pressioni esterne per garantire l’indipendenza dal potere esecutivo, l’inamovibilità e adeguatezza della retribuzione percepita per assicurare un tenore di vita decoroso; d) l’apparenza d’indipendenza; e) l’autonoma disponibilità dei mezzi necessari per lo svolgimento della sua attività .
Per quanto riguarda le modalità di selezione e la durata dell’incarico, il problema, secondo la dottrina, è legato non tanto al fatto che il giudice tributario non sia un giudice professionale quanto alla potenziale incompatibilità tra l’esercizio della funzione giurisdizionale e l’esercizio della sua professione, rispetto alle quali è recentemente intervenuta una modificazione dell’art. 8 del D.lgs. n. 545 del 1992.
Inoltre, per quanto riguarda l’equidistanza del giudice tributario rispetto agli altri poteri dello Stato, non può non suscitare allarme il fatto che la giustizia tributaria è inquadrata, attraverso un’apposita direzione, in uno dei dipartimenti del Ministero dell’Economia e delle Finanze e si tratta dello stesso Dipartimento delle Finanze nel quale si trovano altre Direzioni, poste sullo stesso piano, quali la Direzione agenzie ed enti della fiscalità.
La giustizia tributaria è inquadrata nello stesso dipartimento ministeriale che emana gli atti da controllare e l’articolazione amministrativa che vi è preposta è equidistante a quella preposta alle Agenzie che emanano gli atti da controllare.
Per di più, ciò che genera perplessità e dubbi sul carattere d’indipendenza del giudice tributario, così come chiarito dalla giurisprudenza della Corte EDU, è che la selezione, formazione, assegnazione, vigilanza, determinazione dello stato giuridico economico, valutazione della produttività, progressione in carriera e giudizio disciplinare del personale amministrativo preposto alla giustizia tributaria e la supervisione sulla organizzazione dei relativi uffici dipende dalla stessa Amministrazione che emana gli atti amministrativi soggetti al controllo giurisdizionale.
Ciò è in evidente contrasto con il canone d’indipendenza di cui all’art. 6 CEDU: il personale amministrativo che svolge un’attività di supporto al giudice tributario appare essere “nelle mani” del soggetto autore degli atti oggetto di giudizio.
Secondo la dottrina, un’ulteriore area di ambiguità è determinata dal fatto che i rapporti tra giudici e personale delle segreterie non sono disciplinati dalla normativa, né direttamente né indirettamente.
Questa impressione di apparente dipendenza tra il personale amministrativo e i giudici tributari è acclarata dalla previsione di relazioni e competenze della Direzione della Giustizia tributaria che appaiono atipiche, come a esempio:
a) la direzione si occupa dei provvedimenti sullo status dei Giudici, anche se determinati da organi indipendenti;
b) tra i compiti della Direzione vi è, altresì, l’osservazione della giurisprudenza dei giudici tributari, con il potere di segnalazione di questa al Consiglio di Presidenza;
c) essa segue il contenzioso istauratosi con i giudici;
d) in ultimo, la predetta Direzione supporta la formazione professionale dei giudici.
Queste relazioni tra la Direzione della Giustizia tributaria e i giudici tributari è in evidente contrasto con la necessaria apparenza d’indipendenza del giudice tributario.
Un ulteriore elemento che mette in dubbio l’indipendenza del giudice tributario, è il fatto che la gestione e la programmazione della spesa delle Commissioni è affidata a organismi del Ministero delle Finanze.
La Corte EDU ha già condannato un altro Stato nel quale era il Ministero a determinare uno stanziamento, a monte, delle somme per la retribuzione dei giudici tributari.
Sotto il profilo finanziario, poi, la gestione e programmazione della spesa delle Commissioni è affidata a organismi del Ministero delle Finanze.
In ultimo, non risulta compatibile con la CEDU il trattamento economico esiguo previsto per giudici tributari, inadeguato alla complessità dei compiti attribuiti e agli standards di un giudice moderno europeo .
Le denunce della dottrina innanzi esposte sui possibili profili d’incompatibilità dell’assetto ordinamentale della giustizia tributaria con l’art.6 CEDU, così come affermato dall’orientamento consolidato della Corte di Strasburgo, sono state raccolte dalla giurisprudenza tributaria, sollevando un’eccezione di legittimità costituzionale di talune disposizioni sospettate di violare i valori d’indipendenza
La giurisprudenza tributaria raccoglie, condividendole, le denunce della dottrina sui possibili profili di incompatibilità dell’assetto ordinamentale della giustizia tributaria con l’art. 6 della CEDU, così come interpretato dalla giurisprudenza consolidata della Corte di Strasburgo, sollevando un’eccezione di legittimità costituzionale di talune disposizioni “sospettate” di violare il diritto convenzionale quanto ai valori di indipendenza e imparzialità del giudice tributario.
La Commissione tributaria di Reggio Emilia, con ordinanza n.280/2014, ha chiamato la Corte Costituzionale a esprimersi sulla costituzionalità di un numeroso gruppo di disposizioni:
- gli artt. 2, 15, 31, 32, 33, 34 e 35 del D.lgs n. 545 del 1992, nella parte in cui, prevedendo l’inquadramento degli uffici di segreteria delle commissioni tributarie nell’amministrazione finanziaria, affiderebbero la disponibilità dei mezzi personali per l’esercizio della giurisdizione tributaria alla stessa amministrazione cui appartengono le autorità che emanano gli atti sottoposti al controllo giurisdizionale, anziché al giudice tributario;
- il giudice a quo censura, altresì, gli artt. 2, 29 bis, 31 e 35 del D.lgs. n. 545 del 1992 nella parte in cui attribuirebbero la gestione dei mezzi materiali necessari per l’esercizio della giurisdizione tributaria alla stessa autorità che emette gli atti da sottoporre al controllo giurisdizionale, anziché prevedere un’autonoma gestione finanziaria e contabile delle Commissioni tributarie;
- secondo il rimettente un ulteriore vulnus all’apparente indipendenza dei giudici tributari deriverebbe dall’art. 13 del D.lgs. n. 545 del 1992, in tema di trattamento retributivo degli stessi giudici, nella parte in cui la norma stabilirebbe che la determinazione, la liquidazione e il pagamento del compenso spettante ai componenti delle commissioni tributarie siano effettuati dalla stessa amministrazione cui appartengono anche gli organi che emettono gli atti sottoposti al controllo giurisdizionale;
- anche gli artt. 6 del D.lgs. n. 546 del 1992 e 51 cod. proc. civ. contrasterebbero con l’art. 6 CEDU nella parte in cui, accanto alla possibilità di astensione individuale del giudice per motivi “personali”, non prevedono un rimedio processuale che consenta ai giudici tributari di astenersi per difetto di apparenza di indipendenza causato da ragioni ordinamentali, al fine di evitare l’adozione di decisioni nulle per un vizio di costituzione del giudice, ai sensi dell’art. 158 cod. proc. civ., o che siano comunque fonte di responsabilità dello Stato per violazione dei diritti fondamentali dell’uomo.
La Corte Costituzionale con ordinanza n. 227/2016 ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale suesposte perché “il rimettente invoca plurimi interventi additivi, diretti da un lato a delineare un nuovo assetto dell’ordinamento e dell’organizzazione della giustizia tributaria, e dall’altro lato ad aggiungere una nuova causa di astensione del giudice tributario, fondata sul difetto della sua apparente indipendenza per ragioni ordinamentali, o comunque a prefigurare un analogo rimedio processuale;che, in relazione al censurato inquadramento del personale delle segreterie nell’amministrazione finanziaria, il giudice a quo omette del tutto di indicare la direzione e i contenuti dell’intervento correttivo richiesto, tra i molteplici astrattamente ipotizzabili..”.
La Consulta continua, affermando che neanche la censura del giudice a quo relativa all’assenza in capo ai presidenti delle Commissioni di diretti poteri di vigilanza e controllo del personale delle segreterie, “..chiarisce i contorni e gli eventuali limiti dell’auspicato ampliamento delle attribuzioni presidenziali, i quali possono atteggiarsi in molti modi”; tale incertezza dell’intervento additivo richiesto dal giudice rimettente è rinvenibile, altresì, per la censurata mancanza di autonomia di gestione finanziaria e contabile delle Commissioni tributarie, in quanto tale intervento potrebbe rivestire “molteplici forme e graduazioni” per realizzare l’auspicata autonomia della giurisdizione tributaria e molteplici forme e graduazioni che potrebbe assumere l’auspicata autonomia della giurisdizione tributaria.
La Corte Costituzionale conclude affermando che è altresì inammissibile l’ordinanza di rimessione della CTP di Reggio Emilia perché gli interventi additivi richiesti sono “ manipolativi di sistema e sono in linea di principio estranei alla giustizia costituzionale, poiché eccedono i poteri di intervento della Corte, implicando scelte affidate alla discrezionalità del legislatore” .
Circa, infine, il rispetto del giudice naturale precostituito per legge, questo è garantito dall’esistenza di criteri obiettivi di assegnazione delle cause, determinati nella direttive in materia assunte dall’organo di autogoverno .
E’ opportuno mettere in evidenza che sia la dottrina che la giurisprudenza Costituzionale e di merito auspicano un intervento riformatore del sistema di giustizia tributaria da parte del legislatore.
4.3. Il principio del contraddittorio nel rito tributario: osservazioni sulla sua compatibilità con la normativa convenzionale e comunitaria.
4.3.1. Definizione e fondamento giuridico del contraddittorio endoprocedimentale tributario.
La nozione di contraddittorio endoprocedimentale è equivalente a quella di contraddittorio giurisdizionale: prima dell’emanazione di un provvedimento, il soggetto che subirà gli effetti di quest’ultimo deve avere la possibilità d’interloquire con la PA, manifestando il suo punto di vista sulla base dei dati raccolti.
Ebbene, il soggetto destinatario del provvedimento completo deve essere informato in maniera trasparente su cosa e perché si sta per decidere nei propri confronti, dandogli la possibilità di opporre proprie argomentazioni e prove, con la certezza che queste sue allegazioni saranno adeguatamente valutate dall’organo incaricato di provvedere in merito.
La funzione del contraddittorio è duplice: da un lato consente al soggetto interessato dalla procedura di esprimere le proprie ragioni, allegando elementi di fatto, prove e/o argomenti giuridici a sostegno delle stesse, dall’altro, l’organo giudiziario o amministrativo potrà acquisire ulteriori informazioni utili per l’emanazione del provvedimento .
Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia della UE «il rispetto dei diritti della difesa costituisce un principio fondamentale del diritto dell’Unione di cui il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento costituisce parte integrante» .
La Corte riconosce che il diritto al contraddittorio in qualsiasi procedimento è attualmente sancito, non solo negli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che garantiscono il rispetto dei diritti della difesa nonché il diritto ad un processo equo in qualsiasi procedimento giurisdizionale, ma anche nell’articolo 41 di quest’ultima, il quale assicura il diritto ad una buona amministrazione. Il paragrafo 2 del citato articolo 41 prevede che il diritto a una buona amministrazione comporta, in particolare, il diritto di ogni individuo ad essere ascoltato, prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale lesivo.
Nell’ordinamento italiano il contraddittorio è espressamente previsto dall’art. 111 della Costituzione solo nei procedimenti giurisdizionali.
Tuttavia, secondo la Corte Costituzionale, il contraddittorio, pur non essendo espressamente previsto dalla Costituzione, è un diritto imposto nel procedimenti amministrativi con valenza sanzionatoria, e in generale in tutti i procedimenti amministrativi, dal principio costituzionale del giustoprocedimento di cui all’art. 97 della Costituzione . Secondo la dottrina, tale interpretazione della Consulta serviva non solo per ritenere che la previsione di siffatte garanzie potesse salvare la legittimità di norme denunciate alla sua attenzione ma anche, e assai più significativamente, per affermare la illegittimità costituzionale della disciplina di procedimenti amministrativi per i quali tale garanzia non fosse prevista.
Tale orientamento è stato avvallato, altresì, con riconoscimento da parte delle Sezioni Unite della Suprema Corte nel suo primo orientamento in materia, convenendo che il contraddittorio endoprocedimentale è attuazione del principio generale emergente dalla L. n. 241 del 1990, il cui art.7 impone l'obbligo della comunicazione dell'avvio del procedimento ai soggetti nei confronti dei quali il provvedimento finale è destinato a produrre effetti diretti.
Quest’ultima previsione normativa è espressione del principio costituzionale di imparzialità e di buon andamento dell'amministrazione che, sancito dall’art. 97 della Costituzione e affermato dalle Sezioni Unite, trova piena corrispondenza nell’impianto complessivo dello Statuto del Contribuente; da tale compendio normativo emerge che la pretesa tributaria trova legittimità nella formazione procedimentalizzata di una "decisione partecipata", mediante la promozione del contraddittorio tra amministrazione e contribuente anche nella fase precontenziosa e il suo ordinato sviluppo funzionale del rispetto dell'obbligo di comunicazione degli atti imponibili. Il diritto al contradditorio, ossia il diritto del destinatario del provvedimento ad essere sentito prima della relativa emanazione, realizza l'inalienabile diritto di difesa del cittadino, tutelato dall'art. 24 Cost., e il buon andamento dell'amministrazione, presidiato dall'art. 97 Cost.
4.3.2. Dove si applica il contraddittorio.
Secondo la Corte di Giustizia, il diritto al contraddittorio è norma generale senza bisogno di specifiche prescrizioni di settore: «tale obbligo incombe sulle amministrazioni degli Stati membri ogniqualvolta esse adottano decisioni che rientrano nella sfera d’applicazione del diritto dell’Unione, quand’anche la normativa comunitaria applicabile non preveda espressamente siffatta formalità» .
Alle stesse conclusioni giungeva anche la prima giurisprudenza della Sezioni Unite della Corte di Cassazione, secondo le quali va riconosciuto il «dovuto rispetto del diritto di difesa mediante l'attivazione del contraddittorio endoprocedimentale, che costituisce un principio fondamentale immanente nell'ordinamento cui dare attuazione anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa.»
Il diritto al contraddittorio si riteneva, quindi applicabile, a ogni procedimento, anche ove non previsto.
Diversamente, oggi la Corte di Cassazione lo circoscrive, per quanto riguarda la disciplina tributaria, ai soli procedimenti in cui esso sia espressamente previsto, ovvero, se non espressamente previsto, nelle questioni che coinvolgono questioni inerenti materie «armonizzate»; secondo la dottrina, tuttavia, tale soluzione appare suscettibile di ripensamento.
In primo luogo, appare opportuno rilevare che la giurisprudenza di legittimità recente ha affermato che il principio del contraddittorio si applica, dove non espressamente previsto, alle materie «armonizzate», ma in realtà il diritto dell’UE si applica anche a imposte non armonizzate e a tutte le fattispecie oggetto di disciplina UE e a quelle aventi a oggetto le libertà dei trattati (circolazione, stabilimento ecc..).
In secondo luogo, si evidenzia che poiché la giurisprudenza comunitaria e convenzionale hanno ampliato l’area delle sanzioni amministrative, ritenendole a causa dell’afflittività equivalenti a quelle penali, si dovrebbe applicare il principio del contraddittorio secondo i principi fondamentali.
In terzo luogo, sulla base di quanto affermato dalla dottrina, poiché il contraddittorio si dovrebbe attuare fuori dalle materie delle imposte armonizzate solo quando sia previsto dalla legge, lo si ritiene obbligatorio nel caso di studi di settore e lo si esclude negli accertamenti bancari. In ultimo, si afferma che il contraddittorio sarebbe doveroso negli accertamenti presso il contribuente affinché ci sia un bilanciamento con l’invasione della sua sfera privata da parte dell’Amministrazione .
4.3.3.Principio di effettività del contraddittorio.
Il contraddittorio, principio garantito sia dall’ordinamento europeo che dalla Costituzione, viene attuato dal legislatore con diverse norme tributarie, in particolare attraverso il comma 7 ed ultimo comma dell’art. 12 dello Statuto del Contribuente. Mentre l’art. 6, al comma 5 dello Statuto del Contribuente, realizza il principio generale del contraddittorio nell’ordinamento tributario, previsto dagli articoli 23 e 97 della Costituzione.
Ci sono, ancora, altre norme che prevedono la necessità del contradditorio, a pena della nullità dell’atto e cioè quelle riguardanti gli accertamenti basati sugli studi di settore, sulla c.d. “clausola antielusiva”, sul disconoscimento dei costi black lists e, da ultimo, sul “redditometro”.
La giurisprudenza italiana non ha avuto un orientamento uniforme per quanto riguarda il contraddittorio endoprocedimentale.
Da un lato, una parte della giurisprudenza di legittimità ha attribuito un’importanza limitata al principio del contraddittorio, affermando che la sua omessa instaurazione non dovrebbe causare la nullità dell’atto, ad esempio negli accertamenti derivanti da indagini finanziarie o da quelli risultanti da redditometro ante D.L. N.78/2010 .
Un’altra parte della giurisprudenza di legittimità, invece, ha subito l’influenza della sentenza della CGCE del 18 dicembre 2008, causa C-349/07, Sopropè, che ha valutato il contraddittorio come un diritto fondamentale, sulla base delle norme direttamente applicabili della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, secondo l’interpretazione compiuta dalla Corte di Giustizia .
Precisamente, detta sentenza sottolinea che la disciplina di attuazione del contraddittorio si sostanzia nella sua clausola di effettività, la quale implica che al contribuente sia dato:
a) congruo preavviso per preparare le sue difese;
b) congruo tempo e spazio per esporle;
c) congruo ascolto;
d) congruo conto della valutazione di esse e delle ragioni per le quali esse sono state, semmai, disattese.
Il giudizio di congruità deve essere realizzato tenendo conto delle caratteristiche del caso concreto, in ordine alle quali è necessario comprendere, almeno: la complessità del caso; la precedente notizia della procedura di accertamento da parte del contribuente; la frequenza o l’occasionalità della relazione che intercorre tra contribuente e Amministrazione; l’ampiezza, la pertinenza, la novità e la complessità delle difese .
La giurisprudenza di legittimità, concorde con quella comunitaria, ha sostenuto che l'attività istruttoria amministrativa deve essere «completata nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, cioè consentendo al contribuente, ai sensi dell'art. 12, comma 7, della legge n. 212/2000, d’intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di essere costretto ad adire il giudice tributario, di vincere la mera praesumptio hominis costituita dagli studi di settore» .
Il diritto al contraddittorio viene leso se la verifica fiscale non si chiude con il processo verbale di constatazione, che porta a conoscenza il contribuente della conclusione dell'attività istruttoria. Il PVC è, quindi, elemento indefettibile per la validità della stessa indagine tributaria e del conseguente avviso di accertamento.
Pertanto è censurabile la motivazione del successivo atto di accertamento che abbia omesso la valutazione delle osservazioni del contribuente o le abbia rigettate con affermazioni generiche .
A tal proposito, si è pronunciata altresì la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia con atto n. 4 del 2012, che ha ritenuto il contraddittorio, espressamente previsto dalla Statuto per gli accessi dall'art. 12, comma 7, come l’attuazione di un principio generale della partecipazione del contribuente al procedimento di accertamento tributario.
Anche la C.T. Prov. di Lecco, in riferimento a principio del contraddittorio nell’ambito degli accertamenti sintetici, ha affermato che tale principio è imposto, prima e indipendentemente dal D.L. n. 78/2010, dal principio del “giusto procedimento” che era stato sancito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza26635/2009, in materia di parametri e studi di settore) per gli accertamenti standardizzati, dei quali sicuramente l’accertamento sintetico fa parte .
Entrambe le sentenze ribadiscono l’orientamento della giurisprudenza comunitaria, secondo il quale il principio del contraddittorio è elemento essenziale anche nella fase procedimentale di formazione del provvedimento.
4.3.4 Criticità nell’applicazione del principio del contraddittorio in ambito tributario.
Il primo profilo critico della corretta applicazione del principio del contraddittorio nel sistema tributario è rappresentato dal divieto di assunzione della testimonianza e delle dichiarazioni del terzo, di cui all’art. 7, comma 4, del D.lgs. 31 dicembre 1992 n. 545, che si giustifica con la natura scritta non orale del rito tributario.
Tale questione è stata risolta dalla Corte Costituzionale, che ha respinto l’eccezione di legittimità costituzionale sollevata per contrasto del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e del diritto alla parità tra le armi processuali di cui all’art. 111 Cost, affermando che alle dichiarazioni di terzi raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale non è attribuibile efficacia di prova testimoniale: queste assumono infatti il valore «proprio degli elementi indiziari, i quali, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione» .
La Consulta continua, precisando che nulla vieta di riconoscere in capo al contribuente «lo stesso potere d’introdurre dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale... Chiaramente, anche per il contribuente, tali dichiarazioni non potranno avere valore di prova, ma dovranno avere il valore di elementi indiziari, che necessitano di essere valutati assieme ad altri elementi, non potendo da soli costituire il fondamento della decisione» .
La seconda questione problematica attiene alle ricadute sul principio dell’onere della prova tutte le volte in cui l’amministrazione basa l’accertamento su mezzi presuntivi ope legis, quali il redditometro, gli standards, gli studi di settore o l’abuso del diritto.
Queste forme di accertamento sono il frutto di un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli standards in sé considerati, ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento.
In sede di contraddittorio, il contribuente ha pertanto l’onere di provare, senza limitazione di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli standards o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame; d’altra parte, la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma va integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali le contestazioni sollevate sono state disattese.
Da ciò ne discende che nel caso in cui il contraddittorio non si formi per inattività della parte privata, questa ne assume tutte le conseguenze, in quanto l’ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli standards.
Secondo la dottrina, pertanto, tale inattività comporta una sanzione processuale per il contribuente, esimendo il Fisco, sul quale grava l’onere della prova dell’inadempimento tributario, dal fornire ogni dimostrazione del fatto a sé favorevole .
4.4. Sanzioni tributarie: natura giuridica e principio del nel bis in idem. Recente tesi del doppio binario sanzionatorio.
Di sovente, la giurisprudenza interna e sovranazionale assumono posizioni differenti in termini di sanzione penale o amministrativa.
La Corte EDU, infatti, nell’interpretazione e nell’applicazione dei fondamentali principi di legalità, irretroattività e colpevolezza, ha elaborato una propria nozione di reato e di pena stabilendo che tali concetti non devono essere ripresi in maniera automatica dagli ordinamenti nazionali.
Per tale ragione, con l’affermarsi di tale concezione autonomistica, al fine di stabilire se una misura
debba essere considerata come pena o come sanzione amministrativa per la Convenzione, non si può prescindere da una valutazione fornita dalla stessa Corte di Strasburgo, che deve avvenire in via autonoma rispetto alla valutazione del giudice interno.
A tal proposito, assumono particolare importanza i cc.dd. “criteri Engel” enucleati dalla Corte Europea al fine di pronunciarsi sulla qualificazione penale o amministrativa di una determinata misura: il primo passo è prendere in considerazione la qualificazione così come stabilita dall’ordinamento interno; successivamente, è necessario analizzare l’effettiva finalità di quella misura (preventiva, punitiva, riparatoria); in ultimo, si deve focalizzare l’attenzione sulla gravità in concreto della sanzione per chi la subisce .
Non solo è importante individuare correttamente il carattere penale o amministrativo di una singola misura ma, nell’eventualità che siano previste in astratto più sanzioni per lo stesso fatto, occorre stabilire l’esatto rapporto tra le stesse, al fine di evitare la violazione di uno dei principi cardine del diritto nazionale e sovranazionale, cioè il ne bis in idem.
Tale principio viene definito come diritto a non essere giudicati o puniti due volte per lo stesso fatto. Tale accezione del divieto di doppio giudizio ha una valenza:
- sostanziale, garantendo l’interesse collettivo alla certezza del diritto e quello individuale del soggetto sottoposto a procedimento penale,
- processuale, soddisfacendo esigenze di economia processuale.
Nell’ordinamento internazionale ed europeo, il principio del ne bis in idem trova oggi copertura legislativa nell’art. 4 del Protocollo aggiunto alla CEDU n. 7, nell’art. 50 della Carta di Nizza e nella giurisprudenza convenzionale .
Nella sentenza 4 marzo 2014, resa nel caso Grande Stevens c. Italia, la Corte di Strasburgo ha negato che il medesimo fatto possa essere sanzionato due volte, prima nel procedimento amministrativo in materia di abuso di mercato, caratterizzato da una pena tanto afflittiva da essere ricompresa nella materia penale secondo i criteri di Engel, poi nel procedimento penale sorto sugli stessi fatti.
I giudici europei hanno, quindi, sostenuto la necessità che il procedimento da seguire per l’inflizione di predette sanzioni si svolga nel rispetto delle garanzie che l’art. 6 CEDU riserva ai processi penali; inoltre, ritenuta la riferibilità delle sanzioni considerate amministrative nell’ordinamento italiano, i medesimi fatti oggetto del successivo procedimento penale hanno riconosciuto la violazione del principio del ne bis in idem, di cui all’art. 4 del Protocollo n.7.
Un’altra sentenza del medesimo tenore è del 20 Maggio 2014, resa nel caso Nykanen c. Finlandia, nella quale la Corte EDU è stata chiamata a valutare la coerenza con il principio del ne bis in idem dell’ordinamento finlandese, laddove possano essere parallelamente avviati il procedimento sanzionatorio per illecito amministrativo e quello penale per frode fiscale.
La Corte ha concluso per la natura penale della sanzione amministrativa, consistente nella c.d. sovratassa, in applicazione dei noti criteri Engel.
L’evoluzione giurisprudenziale della Corte EDU ha subito un revirement con la sentenza del 15 novembre 2016-caso A e B c.Norvegia, ove è stata individuata una terza via, alla luce delle esigenze di tutela degli interessi finanziari degli Stati: la Grande Chambre ha, infatti, ammesso che i procedimenti sanzionatori penale e amministrativo sullo stesso fatto possono coesistere qualora tra loro sussista una “connessione sostanziale e temporale sufficientemente stretta”.
Sotto il profilo del nesso temporale, viene ammessa sia la conduzione parallela sia quella non contemporanea dei due procedimenti, purché non si produca un pregiudizio sproporzionato in ragione del permanente stato di incertezza processuale.
Sotto il profilo del nesso sostanziale, il collegamento tra i due procedimenti si rileva attraverso i seguenti elementi sintomatici:
- la diversa finalità dei procedimenti;
- la prevedibilità della duplicazione di procedimenti e sanzioni da parte dell’autore della condotta;
- la conduzione integrata dei procedimenti, in modo da evitare la duplicazione nella raccolta e nella valutazione delle prove;
- la considerazione nel secondo procedimento dell’entità della sanzione inflitta nel primo, affinché venga in ogni caso rispettata l’esigenza una di una proporzionalità complessiva della pena .
Secondo la dottrina, tale sentenza ha reso meno indifferibile un intervento del legislatore diretto a riformulare il sistema sanzionatorio e non sembra più cogente l’eliminazione del doppio binario sanzionatorio .
In realtà, questo brusco mutamento della giurisprudenza della Corte di Strasburgo è stato precorso dalla sentenza n.20887 del 2015 , nella quale la Suprema Corte ha negato la violazione del ne bis in idem nel doppio binario tributario, giacché i procedimenti di tipo penale e amministrativo “sono paralleli ed interagiscono tra loro, poiché l’avvenuto pagamento del debito tributario condiziona l’entità della sanzione penale”; a conferma di tale assunto vengono invocati gli articoli 19, 20 e 21 del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, vale a dire la disciplina dei rapporti tra sistema sanzionatorio amministrativo e procedimenti penale e tributario .
Il recente orientamento della giurisprudenza convenzionale è, altresì, stato avvallato dalla Suprema Corte nella sentenza n. 9184/2017 in cui, dopo aver qualificato come penale in senso sostanziale la sanzione disciplinare penitenziaria dell’isolamento diurno per cinque giorni e analizzato la sentenza della Corte EDU, A. e B. c. Norvegia, ha escluso la ritenuta violazione dell’art. 649 c.p.p. e ha considerato come principio consolidato quello generato nella predetta sentenza e non il principio affermato nella sentenza Grande Stevens.
5. Azioni giudiziali esperibili dal difensore tributario in caso di violazione di un diritto fondamentale.
Nel caso di violazione di un diritto fondamentale è possibile esperire un’azione giudiziale differente a seconda del tipo di violazione:
a) se questa è contestata relativamente all’accertamento di un tributo armonizzato, si può chiedere al giudice interno la disapplicazione della norma contrastante con la Carta Europea; in subordine, qualora ci sia incertezza su ciò, il difensore può richiedere al giudice di sospendere il processo e d’inviare gli atti alla CGE affinchè verifichi l’effettiva incompatibilità della norma italiana con quanto disposto dalla Carta Europea;
b) se la violazione riguarda l’accertamento di tributi non armonizzati, occorre chiedere al giudice nazionale d’interpretare in senso convenzionalmente orientato la norma interna; in via gradatamente subordinata, sarebbe conveniente richiedere al giudice di sollevare questione d’illegittimità costituzionale, per contrasto della norma dell’ordinamento interno e l’articolo della CEDU violato, che rappresenta una norma costituzionalmente interposta.
c) se le istanze di cui sopra non avranno condotto a un riscontro positivo, al cittadino rimane la possibilità di ricorrere direttamente alla Corte EDU per una richiesta risarcitoria, ma solo qualora siano stati esperiti tutti i gradi di giudizio e non si versi nell’ipotesi di ricorso per saltum .
Dalla disamina effettuata inerente le violazioni dei principi fondamentali che possono riscontrarsi n ambito tributario, emerge che tale materia è compenetrata dal diritto penale.
La Corte EDU ha, infatti, stabilito che nei procedimenti amministrativi in cui una pubblica autorità accerta i fatti e il provvedimento emanato ha carattere afflittivo, devono trovare applicazione le garanzie tipiche dell’equo processo.
Al difensore tributario, pertanto, allo stato attuale viene richiesta un’approfondita conoscenza del diritto penale, sia sostanziale che processuale, valutando prontamente il diritto fondamentale leso al fine di un’efficace contestazione delle lesioni subite dal contribuente.
Avv. Maurizio Villani
Avv. Lucia Morciano