Internet e Cassazione: diritto a oblio anche sul web
Lo sanciscono i giudici della Corte di Cassazione
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“Il gestore di un motore di ricerca è responsabile del trattamento effettuato dei dati personali che appaiono su pagine web pubblicate da terzi”. Così si sono espressi i giudici della Cassazione. Google deve garantire il diritto all’oblio al privato. E dunque rendere non raggiungibili dal motore di ricerca le notizie non aggiornate su di una vicenda giudiziaria di cui il richiedente è stato protagonista, conclusasi con l’archiviazione. Di più: il colosso californiano deve deindicizzare le pagine web anche nelle versioni extraeuropee del motore se le circostanze lo richiedono, ad esempio se si tratta di un manager che ha interessi fuori dall’Unione europea. A ordinarglielo ben può essere il Garante della privacy italiano: l’ordinamento costituzionale non consente una tutela ai soli ventisette Paesi Ue, per quanto il delisting debba avvenire bilanciando il diritto alla riservatezza con la libertà d’informazione. È quanto emerge da un’ordinanza pubblicata il 24 novembre 2022 dalla prima sezione civile della Cassazione. Accolto il ricorso del Garante per la protezione dei dati personali: la Suprema corte decide nel merito respingendo il ricorso di Google, che già aveva rimosso le pagine incriminate dalle versioni europee del motore di ricerca riscontrando la richiesta dall’interessato. Che tuttavia risiede a Dubai e quando l’indagine è archiviata dal gip per infondatezza della notizia di reato il manager si occupava intermediazione di progetti imprenditoriali in Medio Oriente. Per i giudici di legittimità, infatti, di cui ha scritto il sito Cassazione.net, rileva Giovanni D'Agata, presidente dello “Sportello dei Diritti”, il motivo è fondato e, al riguardo, hanno ricordato che “Il diritto all’oblio, d’altronde, consiste nel non rimanere esposti senza limiti di tempo a una rappresentazione non più attuale della propria persona: si configura la lesione alla reputazione e alla riservatezza se risulta ancora disponibile sul web ma relativa a fatti del passato rispetto ai quali manca l’interesse pubblico alla conoscenza. E dunque scatta la deindicizzazione che non elimina il contenuto ma lo rende non direttamente accessibile tramite motori di ricerca esterni all’archivio in cui si trova. Pesa la sentenza C-507/2017 della Corte di giustizia europea: il diritto eurounitario non vieta agli Stati membri di consentire il delisting anche fuori dalle Ue. E dunque l’Italia può consentire una tutela piena della vita privata e dei dati personali, oltre il Vecchio Continente, visto che i dati circolano sulla rete «con modalità liquide e pervasive». Spese di giudizio compensate per la novità della questione.