Lesioni personali se l'atleta colpisce l'avversario a gioco fermo
Costituisce reato picchiare l'avversario in una partita e non assume alcuna rilevanza il fatto che il pugno sia stato sferrato quando il gioco era fermo: la violenza, in tal caso, realizza finalità estranee alla competizione.
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Così si sono espressi i giudici della Cassazione con la sentenza del 14 marzo 2011, n. 10138, confermando la decisione con cui i giudici di merito avevano condannato per lesioni personali un atleta di pallacanestro il quale aveva, appunto, colpito un avversario con un pugno, provocandogli la rottura del setto nasale.
Con la decisione che qui si commenta la Corte ha aderito alle motivazioni dei "colleghi di secondo grado" secondo cui l'atleta doveva considerarsi responsabile in considerazione del fatto che il pugno era stato sferrato proprio in quanto il gioco era ormai fermo.
Secondo il pensiero dei giudici di legittimità il reato, infatti, si potrebbe escludere solamente nella ipotesi in cui l'azione venga realizzata nella foga della partita.
Da ciò ne consegue che indipendentemente dal fatto che il soggetto sia stato colpito quando il gioco era fermo, l'aver sferrato un pugno all'avversario non per un eccesso agonistico nel contendergli il possesso palla, bensì per finalità estranee alla stessa competizione, comporta il superamento del limite del c.d. rischio consentito, rendendo tale comportamento penalmente perseguibile.
Non può essere applicata alcuna causa di giustificazione non codificata dell'esercizio dell'attività sportiva tutte le volte in cui possa ravvisarsi nell'agente la consapevole e soprattutto dolosa intenzione di ledere l'incolumità altrui (dell'avversario) approfittando del "gioco".