Mobbing. Spetta la reintegra e il danno morale per il lavoratore che reagisce anche violentemente contro il capo che lo mobbizza.

Dev'essere ritenuto sproporzionato e quindi illegittimo il licenziamento seguito all'alterco determinato da vessazioni sistematiche.

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Non solo non può essere licenziato il dipendente che aggredisce il superiore minacciandolo con una sbarra metallica, dopo aver subìto sistematiche e continue vessazioni tali ledere la capacità di autocontrollo, ma dev’essere anche risarcito per il danno morale.
A stabilirlo la sezione lavoro della Corte di Cassazione con la significativa sentenza 18093/13, pubblicata il 25 luglio che, come rileva Giovanni D’Agata presidente e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, ha preso in esame il fatto, non raro sui luoghi di lavoro nostrani, del capo che mobbizza il sottoposto mentre l’aggressione del dipendente avviene a seguito di una sistematica condotta di bossing che l’azienda conosce e non impedisce.
Nel caso in questione preso in esame dalla Suprema Corte che ha confermato la sentenza della Corte d’Appello di Torino nella quale erano state decisive le testimonianze dei colleghi del licenziato acquisite in sede penale sulle continue vessazioni alle quali l’incolpato risulta sottoposto dal suo responsabile, tant’è che era stato ritenuto correttamente sproporzionato il provvedimento espulsivo adottato nei confronti del dipendente “incensurato”, che si ispira al principio di buona fede nell’esecuzione del contratto di lavoro. Per di più, quindi, oltre alla reintegra, sul posto va anche dato atto del riconoscimento del danno morale per le violenze subite dal lavoratore per cui l’azienda è responsabile ai sensi dell’art. 2087 del codice civile anche se la sentenza d’appello è stata cassata con rinvio alla stessa corte di merito in diversa composizione per quantificare l’aliunde perceptum del lavoratore che va detratto dal risarcimento.
Se viene accolto come unico motivo di ricorso dell’azienda la questione di quanto percepito dal lavoratore nelle more del giudizio, infatti, per il resto i giudici di legittimità hanno confermato integralmente la sentenza d’appello che aveva ordinato la reintegra e il risarcimento al dipendente per il licenziamento illegittimo oltre che la rifusione del danno morale liquidato in via equitativa. Dev’essere specificato che a causa del mobbing verso il sottoposto, il superiore era stato già condannato in sede penale in entrambi i gradi di giudizio per il reato di maltrattamenti di cui all’articolo 570 del codice penale. È evidente, quindi, il quadro probatorio che era emerso in sede penale a seguito delle testimonianze degli altri dipendenti con il malcapitato licenziato descritto come un elemento preparato e gioviale, tecnicamente preparato ed esperto nel suo lavoro. Ed il capo, forse proprio per tali ragioni, l’aveva preso di mira con continue mortificazioni professionali e umane, oltre offese gratuite. In poche parole il ”boss” aveva reso la vita impossibile al sottoposto che un giorno aveva reagito (per disperazione) brandendo una sbarra. Il licenziamento, quindi, si era rivelato alla stregua di un provvedimento eccessivo e sproporzionato se si fosse tenuto in debito conto i torti subiti dall’incolpato “non potendosi ritenere la reazione avuta …costituisse elemento di per sè idoneo e sufficiente ad inficiare irrimediabilmente il rapporto fiduciario da tempo esistente …Ciò nell’ottica della correttezza e della buona fede alla luce delle quali andava letta ed interpretata la dinamica di un rapporto contrattuale quale quello in esame”.
Non vi sono dubbi, quindi, neanche per la Suprema Corte che nel caso di specie si possa configurare il mobbing nella condotta del datore di fronte a una persistente persecuzione e emarginazione del dipendente: il prestatore d’opera si ritrova leso nella sua sfera personale e lavorativa. Il tutto in violazione dell’articolo 2087 Cc che impone al datore di garantire la sicurezza sul lavoro. E nessun dubbio che sia lo stesso datore a dover rispondere anche in termini di risarcimento per il bossing posto in essere dal suo dipendente con incarico di responsabilità: a nulla vale il tardivo intervento di pacificazione da parte dell’azienda. Nella fattispecie, non può far finta di niente dato che il lavoratore denuncia il mobbing del capo anche nelle giustificazioni presentate nell’ambito del procedimento disciplinare.
 

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