"No al razzismo" e giurisprudenza. Dare dello «Sporco negro!» integra l'aggravante del razzismo al di là delle finalità per cui si compie il reato.
L'aumento di pena scatta comunque se la condotta illecita, ad esempio di lesioni, sia strumentalizzata all'odio etnico senza bisogno di altre indagini
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È una delle offese più brutte e che più dimostrano razzismo e xenofobia, ma con la giurisprudenza non si scherza e dare dello «sporco negro!» può far scattare l’aggravante del razzismo anche se, per ipotesi, il movente dell’aggressione non risulti la discriminazione razziale. È la sentenza 30525/13, pubblicata il 15 luglio dalla Cassazione a rilevare tale principio che per Giovanni D’Agata presidente e fondatore dello “Sportello dei Diritti”, vale la pena diffondere perché la cultura dell’integrazione, a volte passa anche dalla conoscenza di decisioni esemplari come questa.
Per determinare l’aumento di pena stabilito dalla cosiddetta “legge Mancino”, infatti, è sufficiente che il reato sia stato oggettivamente strumentalizzato all’odio per l’etnia. Se, quindi, c’è stato da parte dell’agente un consapevole comportamento esteriore risoltosi nell’offesa al colore della pelle, ai fini dell’aggravante di cui all’articolo 3 legge 122/93 non risulta necessaria alcuna indagine ulteriore.
Nella fattispecie, i giudici della quinta sezione penale della Suprema Corte hanno rigettato il ricorso dell’imputato, secondo cui non c’è prova che il pestaggio cui ha partecipato ai danni di due maghrebini sarebbe a sfondo razzista. Per la verità è dimostrato che l’aggressione è stata posta in essere proprio per allontanare da quella zona della città i nordafricani, e dunque in ragione dell’identità razziale delle vittime.
Parimenti tale fatto non rileva ai fini dell’aggravante stabilita dalla “Mancino” che, come detto, si configura ogni volta che, nell’accezione corrente, sussiste un pregiudizio manifesto di inferiorità nei confronti di una razza: l’aumento di pena, dunque, si determina quando la condotta posta in essere si manifesti come una forma consapevole di esteriorizzazione di un sentimento di avversione fondato sulla razza, sull’origine etnica o sul colore della pelle. E ciò quando l’animosità della discriminazione è immediatamente percepibile in base al sentire comune come connaturata all’esclusione di condizioni di parità fra le razze. Non è rilevante allora la mozione soggettiva dell’agente, quando egli pone in essere una condotta di aggressione scegliendo di proposito modalità fondate sul disprezzo razziale.