Persecuzioni sul posto di lavoro: la vittima risarcita dei danni per le singole condotte vessatorie
Importante sentenza della Cassazione in tema di vessazioni sul lavoro. Il datore di lavoro può essere condannato al risarcimento dei danni per le singole condotte vessatorie nei confronti del dipendente che non riesce ad aggiornarsi alle nuove tecnologie anche se non viene rilevato l'unicità delle azioni qualificata come mobbing.
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Una sentenza importante in tema di risarcibilità dei danni a seguito delle condotte vessatorie del datore di lavoro la numero 18927/12, dalla sezione lavoro della Cassazione pubblicata il 5 novembre che Giovanni D&\#39;Agata, fondatore dello “Sportello dei Diritti”, ritiene opportuno segnalare a tutte le vittime delle angherie datoriali, che troppo spesso si arrendono prima di cominciare le proprie battaglie perché non ritengono di riuscire ad avere giustizia.
Non è detto, a leggere la sentenza della Suprema Corte, che con tutta probabilità prende atto della difficoltà di dimostrare che la sussistenza del mobbing in tutti i casi in cui si manifesti, che se non viene rilevata la sussistenza dell’unicità delle condotte vessatorie, non si possa essere risarciti per i danni conseguenti a singoli comportamenti persecutori da parte del capo.
Secondo gli ermellini, infatti, se il mobbing lamentato dal lavoratore non sussiste, non può escludersi che il datore possa comunque essere condannato a risarcire al dipendente il danno non patrimoniale rispetto a singole condotte mortificanti, accertate in giudizio, nonostante manchi l’unicità del disegno persecutorio contro il prestatore d’opera.
Nel caso di specie, è stato accolto con rinvio alla Corte d’appello, in diversa composizione, il ricorso proposto dalla lavoratrice di una farmacia costretta ad andare in pensione prima del tempo perché anziana e perché non riusciva ad aggiornarsi alle nuove tecnologie inserite nel processo produttivo.
A seguito di tanto, la dipendente era giunta all’estremo gesto di un tentativo di suicidio, ma per i giudici tale atto era stato determinato più da una sua parossistica risposta emotiva ai problemi sul lavoro che a una effettiva condotta persecutoria dei capi e dei colleghi. La nota dolente, consisteva nel fatto che con l’introduzione del sistema informatizzato e l’assunzione di nuovi collaboratori la donna non si era più adeguata alle mansioni affidatele.
Se è pur vero tanto, hanno rilevato i giudici del Palazzaccio, la motivazione della sentenza della Corte d’appello che ha esonerato il datore da ogni obbligazione risarcitoria risulta contraddittoria. Al giudice del merito, infatti, è affidato il compito di prendere in considerazione ai fini della decisione tutti i singoli episodi potenzialmente vessatori denunciati dal lavoratore, e ciò anche nel caso in cui non è rilevabile nei confronti del datore e degli altri subordinati l’unicità dell’intento persecutorio (conosciuta oggi come mobbing) nei confronti del prestatore d’opera che reclama il danno non patrimoniale.
Secondo la Suprema Corte tocca ai giudici investiti della questione di merito verificare l’eventuale sussistenza di condotte degradanti a carico del dipendente e le relative responsabilità riferibili al datore.